“Gesù e le bestie” è uno spettacolo teatrale frutto di un percorso di laboratorio con i detenuti del carcere di Eboli. Un progetto sociale che ho seguito – coordinando il progetto e l’organizzazione -, insieme con la compagnia Teatro Grimaldello.
Un lavoro inedito costruito nell’arco di alcuni mesi, tra il 2019 e il 2020, che però non è sfociato nella “messa in scena” finale a causa della chiusura degli spazi per via della pandemia a due giorni dalla prima.
I pochi che durante le prove hanno assistito allo spettacolo, hanno esperito la potenza di una visione onirica, eppure così concreta, che metteva in luce la caducità delle dinamiche relazionali in prigione, ma non solo.
Che sottolineava come i rapporti formali, umani, esistenziali all’interno di quelle mura fossero materia fragile.
Che portava a riflettere sulle contraddizioni degli spazi detentivi, di un luogo – il carcere – da cui troppo spesso si entra e si esce per ritornarci ancora, con estrema “semplicità” a scapito di se stessi.
Un circo felliniano che dentro i suoi tanti paradossi trovava un unico comune denominatore in un aspetto essenziale ma troppo spesso invisibile agli occhi di tutti: l’umanità.
Il film del regista ischitano Leonardo di Costanzo indaga sugli stessi punti: microcosmi conviventi separati dalle sbarre dei reciproci ruoli ma in realtà molto più vicini di quanto essi stessi possano pensare.
L’aria è ferma in quelle carceri per i giorni scanditi sempre uguali, fino al punto di rottura: il “Cenacolo”, quando guardie e rei condividono i pasti cucinati dagli stessi detenuti.
Il film, presentato alla 78° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, vede come protagonisti Toni Servillo e Silvio Orlando in una interpretazione, asciutta e minimalista, giocata molto sugli sguardi.
Guardare con gli occhi del cuore, consente di darsi e dare una possibilità di comprensione anche quando capire sembra impossibile.
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