1 Settembre 2021

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Marx può aspettare, una lezione d’amore

È una confessione collettiva, che coinvolge un intero nucleo famigliare. È una redenzione anelata da tempo quella che Marco Bellocchio cerca di conquistare prima attraverso i suoi film, oggi con questo lavoro di introspezione condivisa che è “Marx può aspettare”.

 

“Io ho mancato”, confessa Marco. “A quella lettera non ho mai risposto”, proseguirà commosso.

 

Non è il solo, però, ad aver mancato. Un’intima verità che è consapevolezza anche dei suoi fratelli e sorelle. Tutti, in qualche modo, hanno mancato di ascolto, empatia, attenzione verso il loro stesso sangue. Evocatore di ombre e fantasmi, Marco Bellocchio ripercorre il deserto emotivo che ha risucchiato la sua famiglia, lo stesso in cui è rimasta stritolata la vita di Camillo, suo fratello gemello. Un’aridità affettiva figlia anche di un’epoca, che si radica nei manierismi perbenisti delle convinzioni ultracattoliche di una madre e in quelle espressione della borghesia conformista di un padre avvocato.

 

Un dolore palesato, toccato e percepito ma inascoltato quello dell’angelo Camillo; un dolore che lo porta al suicidio nel 1968 quando aveva 29 anni.

 

Questo deserto emotivo viene snocciolato senza filtri. Non è un caso se la scena di partenza è solo apparentemente contraria a questo sentire: l’immagine è quella della famiglia, riunita intorno a un tavolo, che brinda. Da qui poi, ad uno ad uno, i racconti si aprono per arrivare tutti allo stesso punto: le ragioni di quel suicidio.

 

Lasciato a se stesso in “quel manicomio che era la nostra casa”, dove “ognuno pensava a se stesso”, Camillo conduce una battaglia interiore da cui esce, purtroppo, sconfitto. Le sue fragilità lo travolgono, non trova in sé e in ciò che lo circonda la forza di risalire la corrente nel tumulto di negatività opprimenti.

 

Lui, che rispetto ai suoi fratelli non riesce a emergere, a trovare la sua strada. Lui, che chiede al suo gemello, in una lettera, se il cinema potesse trovargli uno spazio. Lui, che nonostante le sollecitazioni a impegnarsi in politica, in una famiglia “consacrata” all’impegno civile, di tutta risposta dice “Marx può aspettare”. Lui, che da bambino divide la stanza e la “follia” del primogenito Paolo che con le sue urla, i suoi deliri, le sue imprecazioni ne segna fortemente la quotidianità.

 

Bellocchio parla ai suoi figli e man mano la narrazione, spinta emotivamente dalle note di Ezio Bosso, dipana la storia del suo gemello recuperando testimonianze dirette. Tra queste c’è pure quella della sorella della fidanzata di Camillo che, in maniera netta ma con garbo, porta alla luce anche lei le mancanze dell’intera famiglia.

 

Scorrono poi foto, filmati, documenti. Riemerge nei racconti il biglietto d’addio di Camillo scritto prima di suicidarsi. L’inquietudine, il senso di colpa, la voglia di provare a cercare una via di guarigione, una assoluzione, traspare in ogni inquadratura.

 

Con questo lavoro Marco Bellocchio intende fare i conti con quei fantasmi che ancora oggi lo tormentano, intende metabolizzarli forse anche esponendoli al giudizio collettivo, un gesto quasi di tenerezza verso il proprio stesso sangue. La risposta a quella lettera. Una liberazione e insieme una presa di coscienza che trova la sua catarsi nella scena finale.

 

Un racconto forte quanto delicato, oltremodo necessario per l’intimità che si fa lezione d’amore a disposizione di tutti.

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