La soglia di povertà in America tocca livelli molto alti: il sogno a stelle e strisce per tanti resta solo qualcosa di simbolico, un’aspirazione che si perde nel fiato arso quando scende al di sotto del punto di rugiada.
Fern, donna matura rimasta vedova e senza lavoro, dà voce, pensiero e corpo a quelle persone che per età, condizione sociale e di vita, si trovano a un certo punto della loro esistenza a dover fare i conti con una realtà ostica, riluttante, inospitale per chi non è produttivo.
Lei, impersonata da Frances McDormand – che per la sua interpretazione ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista (il film ottiene anche il riconoscimento hollywoodiano come miglior film e miglior regia) -, vive di lavori saltuari, non ha diritto ai sussidi statali, non ha l’età per “riciclarsi” in un Paese in crisi.
Il film, scritto e diretto da Chloé Zhao, nasce da un’inchiesta – il dossier “Dopo la pensione” ha ricevuto il “Premio Aronson” nel 2015 per il giornalismo sulla giustizia sociale – e dall’adattamento del libro di Jessica Bruder “Nomadland: surviving America in the Twenty-First Century”.
I tempi del racconto sono lenti, ma funzionali a interiorizzare il contesto sociale che emerge; i paesaggi aperti e limpidi, sono contrapposti all’opacità della catena di montaggio di una grande azienda americana e alle dinamiche legate alle politiche del lavoro.
Tutto è funzionale a indagare le emozioni, le situazioni, senza rinunciare a porre lo sguardo verso un’apertura alla vita, ai sogni, alle speranze.
La narrazione sul “nomadismo contemporaneo” porta allo svelamento di una nuova umanità/comunità, di una ritrovata solidarietà, calore, empatia.
C’è un riconoscersi nell’altro: in questo incrocio di occhi e di storie Fern tenta di far pace con la sua vita, è qui che comprende appieno che “casa” non è un concetto statico, materico, ma fluido. Per lei il mondo diventa un’unica grande casa condivisa.
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