Sei anni, cinque mesi e quattordici giorni: è il tempo che ha scandito la elaborazione di un lavoro di scrittura tanto incantevole quanto disarmante della letteratura contemporanea.
Trasportati in un cinematografo di cellulosa scandito in tre sale, Robert Macfarlane ci immerge in una dimensione che va oltre il terreno. Ci conduce nella esplorazione del “mondo di sotto”, varcato il cuore cavo di un vecchio frassino, per poi lasciarci cadere nello spazio che si apre alla scoperta.
“Underland”, tradotto da Duccio Sacchi e pubblicato in Italia da Einaudi nell’ottobre 2020: «È il libro più lungo, più strano, più oscuro, più ambizioso e – in un certo senso almeno – più profondo che io abbia mai scritto e che probabilmente scriverò – afferma Macfarlane sui suoi canali social al termine della scrittura, il 18 maggio 2018 -. È un’esplorazione di mondi sotterranei di molti tipi. È un viaggio nel tempo profondo, negli inferi nel mito, nella materia e nella memoria mentre danno forma a vite e paesaggi, dalla Groenlandia alla Slovenia, dal Mendip a Praga. Tra i suoi colori ci sono il blu del ghiaccio antico, il bianco osseo del calcare e l’oro della rinascita nel mondo superiore della luce solare. Riguarda ciò che si trova sotto le superfici (di paesaggi, menti), i viaggi nell’oscurità alla ricerca di un significato che abbiamo fatto per più di 60.000 anni, e sui tempi profondi passati e futuri della Terra».
Già, è il “tempo profondo” la cronologia del mondo di sotto che viene conteggiato dalle pietre, dai ghiacci, dalle stalattiti, dai sedimenti dei fondali marini, dalla deriva delle placche tettoniche. È una prospettiva, secondo Macfarlane, che deve spingerci all’azione, deve indurci a riflettere su cosa stiamo lasciando alle epoche e agli esseri viventi che verranno dopo di noi. «Underland è una storia di viaggi nell’oscurità, di discese alla ricerca della conoscenza. Segue un itinerario che va dalla materia oscura costituitasi alla nascita dell’universo fino ai futuri nucleari di un Antropocene prossimo venturo. Nel viaggio tra questi due estremi del tempo profondo, la linea narrativa non si allontana mai dal presente in perpetuo movimento».
Tra le spedizioni raccontate, c’è quella nelle isole Lofoten, in Norvegia, alla ricerca dei “danzatori rossi”, uno dei più sorprendenti esempi di arte pittorica rupestre scoperto tra le grotte marine a picco sull’oceano, scavate dal moto ondoso nel corso dei millenni. «Complessivamente queste grotte dipinte contengono circa 170 semplici figure stilizzate, a braccia e gambe aperte come se danzassero o saltassero. (…) Tutte dipinte con un pigmento rosso di ossido di ferro applicato con le dita o con un pennello».
Si trovano in una delle zone più inospitali del mondo ma, dopo giorni di viaggio in condizioni non semplici in un gelido inverno: «D’improvviso, inaspettatamente, la mia testa ha un fremito e poi la schiena e il torace cominciano a tremare e mi ritrovo a piangere, sono scosso da singhiozzi in questa caverna a forma di lacrima, così lontano da altri esseri umani e così vicino a queste figure generose. I rischi del viaggio per raggiungere i danzatori scorrono via, la gioia del loro movimento mi riempie e io piango, sorpreso e indifeso, nel profondo del granito e dell’oscurità, per sentimenti che non so descrivere. L’aquila marina vola in cerchio vicino alla scogliera. Le onde si infrangono sui massi sotto la grotta. Il maelstrom si accende e si spegne. Le mani dei morti premono sulla pietra dall’altra parte e incontrano quelle dei vivi, palmo contro palmo, dita contro dita… Di là dalla soglia il tempo procede secondo i suoi ritmi consueti, ma non da questa parte, in questo luogo sottile».
Perché andare giù? Si chiede l’autore. «Recuperare attivamente qualcosa dal mondo di sotto richiede quasi sempre fatica. La difficoltà di accesso ha reso il mondo di sotto un simbolo di ciò che non può essere detto o visto apertamente; la perdita, il lutto, gli occultati abissi dell’anima e quello che Elaine Scarry chiama il “profondo evento sotterraneo” del dolore fisico. (…) È vero, per molte ragioni, tendiamo a distogliere lo sguardo da ciò che c’è di sotto. Eppure oggi più che mai abbiamo bisogno di capire il mondo di sotto, costringerci a vedere più profondamente».
Girando il mondo alla ricerca dei luoghi piú nascosti, inaccessibili, straordinari, andare giù assume quindi il significato di riscattare dalle profondità ciò a cui era negata la luce; l’autore parte dall’oscurità per comprendere piú chiaramente le stratificazioni del passato e del presente così da riemergere con più consapevolezze e correggere la rotta per tutelare il futuro.
Poco prima di partire per i suoi viaggi, Robert Macfarlane riceve in dono due oggetti, accompagnati da altrettante richieste. Il primo è uno scrigno che avrebbe dovuto lasciare nel più profondo o nel più scuro dei luoghi sotterranei che avrebbe raggiunto, un luogo da cui non sarebbe più potuto tornare. Il secondo oggetto è un gufo intagliato in un pezzo di osso di balena, una sorta di talismano. La balenottera da cui proviene si era arenata sulla costa di una delle isole Ebridi. Una sua costola è stata tagliata e levigata, poi cesellata a forma di gufo: «Sembra essere stato realizzato nel Pleistocene ma in realtà è stato fatto nell’Antropocene; è tagliato da un osso di balena e mi è stato dato dal suo creatore, l’artista Steve Dilworth, quando ho iniziato i miei viaggi nel “sottoterra”, per aiutarmi a vedere nel buio».
Se ora la domanda è sul dove l’autore avrà lasciato lo scrigno… beh, per saperlo non resta che leggere questo affascinante, necessario, libro.
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